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Le Costellazioni integrali - intervista a Lorenzo Campese


Di Fabia Garatti, giornalista e esperta di costellazioni sistemiche

Le costellazioni familiari generalmente vengono definite come un metodo di esplorazione fenomenologico ed esperienziale delle dinamiche familiari, nonchécome uno strumento potente ed efficace che aiuta a sciogliere disagi e conflitti. Per Lorenzo Campese, ricercatore, consulente e formatore, c’è di più, molto di più. Secondo il suo sentire e le sue esperienze le costellazioni sono un“processo di infuturamento" ovvero un processo di incontro con il proprio Sé, in cui ciò che è stato e ciò che sarà si incontrano nello spazio di ciò che é.

Fabia. Potremmo definirlo un processo spirituale?

Lorenzo. Si, èanche questo. Non a caso il percorso che proponiamo culmina con le costellazioni spirituali. Perché le costellazioni non sono solo una modalità nuova di risolvere problematiche di vita familiare, personale o professionale ma sono anche una via di crescita spirituale e di consapevolezza, una Via con la V maiuscola. Mi piace definirle un processo di “infuturamento”nel senso di Heideger ovvero come processo con cui l’uomo perviene a se stesso, in base al suo più proprio “poter essere”. In fondo, la costellazione è lo spazio delle possibilità, lo spazio in cui saniamo il passato e da esso troviamo forza e libertà per cambiare traiettoria verso un futuro nuovo e più ricco di possibilità.

F. Ma questo percorso può essere intrapreso da chiunque oppure bisogna prima aver svolto un certo lavoro su di sé?

L. Bisogna essere disponibili a mettersi a nudo ed essere pronti, guardandosi allo specchio, a riconoscersi e a riconoscere che l’essere che vediamo riflesso porta in sé non solo una dimensione fisica, ma anche una dimensione animica e spirituale. L’uomo, in quanto essere bio-spico-spirituale, è composto da corpo, anima e spirito. E’una verità che dobbiamo riportare al centro della nostra vita. 

F. E’ per questo che vengono chiamate “costellazioni integrali”?

L. In parte èper questo. Nel nostro approccio alle costellazioni e alla formazione in generale, consideriamo sempre l’uomo come l’insieme di questi tre elementi - corpo, anima, spirito - e di tre forze essenziali che agiscono in lui: pensiero, sentimento e volontà. Se teniamo a cuore l’uomo nella sua interezza, riusciamo a lavorare su diversi piani contemporaneamente, ovvero in una modalitàche alcuni chiamano multidimensionale.

Ma se chiamiamo lo stile costellativo della nostra scuola “integrale” è anche perché si rifà al pensiero di uno dei più importanti filosofi transpersonali della nostra epoca, Ken Wilber, che ha elaborato un modello di comprensione della realtà che si chiama appunto “modello integrale”. In esso include l’idea fondamentale che ogni evento della realtà è sempre e inevitabilmente “tetra-emergente”ovvero emerge contemporaneamente su quattro livelli diversi:

  • il livello interno-individuale, quello dell’io, della nostra interiorità e di ciò che accade nella nostra anima;
  • il livello interno-collettivo, quello del noi, che attiene alla cultura sociale in cui siamo immersi;
  • il livello esterno-individuale che ha a che fare con la dimensione del rapporto con il mondo esterno su un piano oggettivo, scientifico
  • il livello esterno-collettivo che riguarda il mio rapporto con i macro sistemi con cui mi relaziono e in cui sono inserito. 
In un certo senso, nelle Costellazioni tutti e quattro le dimensioni sono visibili nella loro interdipendenza.

 
F. Come agiscono le costellazioni?

L. Innanzitutto, uniscono ciò che è separato, ovvero permettono alle persone di uscire dall’illusione della separatezza e di comprendere che in realtà siamo veramente tutti “uno”.
 
F. Concetto non facile da comprendere per chi, magari, sta vivendo momenti di grande conflittualità con un fratello, un/a compagno/a…con qualcuno che vorrebbe veder scomparire dalla faccia della terra…
 
L. Non si tratta di comprendere con la mente ma con il corpo e con il sentimento. La grande innovazione delle costellazioni nell’esperienza della ricerca personale è il poter “sentire”in maniera immediata al di là dei propri pensieri. Perché ciò che la nostra mente separa, lo spirito unisce. E’ solo nella nostra mente che possiamo essere separati. Quando aiutiamo le persone a connettersi in uno spazio più profondo, al di là di quello che accade in superficie, ecco che scoprono che siamo tutti comunque connessi e che possono continuare ad amare anche le persone da cui sono state ferite e con le quali hanno scelto di percorrere strade diverse. E qui ricordo ciò che dice il nostro amato insegnante Attilio Piazza: “Non possiamo smettere di amare”. Concetto che è entrato nella mia anima come una certezza, un dato di fatto o, meglio ancora, una verità biologica e spirituale che non ha bisogno di altre dimostrazioni e che ho sperimentato nella mia vita. E, quindi, se da un lato le costellazioni uniscono ciò che è separato, poi fanno fluire l’amore e la vita là dove si sono bloccate. Permettendoci così di capire che ogni volta che poniamo un limite alla nostra capacità di amare, stiamo male, perché amare è la nostra natura e quindi ogni volta che andiamo contro questa nostra natura proviamo disagio.
 
F. Quindi siamo amore…
 
L. Sì. In estrema sintesi siamo amore e quando parlo di amore parlo di qualcosa che va molto oltre ciò che possiamo comprendere e qui ci confrontiamo con il limite delle parole. Ci sono tanti tipi di amore: l’amore bisognoso e interessato; l’amore indirizzato a oggetto e persone specifiche, che discrimina secondo un principio di simpatia-antipatia; e poi c’è l’amore impersonale, equidistante che potremmo anche chiamare spirituale. Mi riferisco, con altre parole, a un aspetto che è molto presente nell’approccio integrale al quale noi - come scuola - ci rifacciamo, ovvero le cosiddette altitudini di coscienza o di consapevolezza che, in estrema sintesi, riassumiamo in quattro stadi:  la dimensione egocentrica, etnocentrica, ecocentrica e cosmocentrica.

L’amore che sperimento sul piano egocentrico ha una sua qualità: è un amore interessato che si riferisce a un bisogno. L’amore a livello etnocentrico è quello che mi connette e mi lega a un  gruppo, a un “noi”. E’un amore che ama alcuni, ma ne esclude altri. C’è un “noi”e un “loro”. C’è poi un amore più ampio che abbraccia tutti gli elementi del sistema perché ogni elemento èimportante e che si cura dell’interdipendenza tra gli elementi. E’un amore che sperimentiamo spesso durante le costellazioni perché come costellatori assumiamo un punto di vista ecosistemico, non possiamo cioè prendere le parti di qualcuno o amare qualcuno in modo speciale.

Anche nel “Corso in miracoli”- un vero e proprio tomo citato spesso da Etchar Tolle e scritto da Helem Schucman, psicoterapeuta americana che ha iniziato a canalizzare un’entità molto elevata - si dice che dobbiamo stare attenti a quelle che chiamano le “relazioni speciali”.  Siamo infatti abituati a considerare l’amore come frutto di relazioni speciali…io amo la mia famiglia, mia figlia, la mia compagna, i miei amici, il mio paese. Insomma c’èsempre un “mio”o un “nostro”.

Nella prospettiva ecocentrica c’è invece un “tutti”. E le costellazioni ci insegnano che c’è una dimensione in cui possiamo iniziare ad amare in maniera equidistante. Quando io vivo in amore, quando sono innamorato della vita, di ciò che faccio…quello che accade è che inizio a sperimentare un amore che va oltre, che non ha confini e cresce continuamente. È una soglia che, nel nostro percorso, in genere gli studenti varcano quando arriviamo al seminario delle costellazioni spirituali durante il quale lavoriamo molto sul tema della morte e del distacco, li rappresentiamo, li viviamo. In quel momento, in quella condizione possiamo uscire dai favoritismi ed elevarci da un amore che ha un oggetto a un amore che non ha oggetto e in cui noi siamo amore.  E’ un concetto teorico che possiamo vivere nelle costellazioni spirituali con il corpo, con l’anima e lo spirito, raggiungendo così una dimensione a cui possiamo ancorarci. 

F. Tu riesci veramente a sperimentare tutti i giorni amore per tutto e per tutti?

L. Occorre fare una distinzione e per questo mi riallaccio ancora una volta a Ken Wilber che ha anche fondato  il movimento integrale. Wilber distingue infatti fra stato di coscienza e stadio di coscienza. Il primo è“gratuito”, capita. Chiunque può sperimentare in una certa condizione o contesto degli stati di coscienza altissimi. Invece lo stadio di coscienza va guadagnato con duro lavoro interiore. 

F. Come?

L. Con un lavoro quotidiano, attraverso la sperimentazione di stati che divengono via via più frequenti fino a consolidarsi in stadi. E’come se restasse una traccia, un filo di Arianna che poi delicatamente si può tirare per trasformare nel tempo uno stato in stadio.

Certi stati iniziano a essere frequenti e si possono sperimentare in qualsiasi istante, in metropolitana, in auto in mezzo al traffico, anche nelle situazioni più inaspettate. Giorni fa mi ècapitato di fare un’esperienza interessante: stavo viaggiando in metropolitana e osservavo curioso la realtà. C’è stato un momento in cui la metropolitana ha avuto un sussulto abbastanza brusco che ha portato un po’di scompiglio generale. Alcuni stavano per cadere ... E c’èstato un attimo in cui in tanti abbiamo istintivamente fatto il gesto di sostenerci reciprocamente, varcando per un istante la soglia della separatezza, della solitudine…situazione buffa durata qualche secondo in cui abbiamo alzato lo sguardo da terra, distolto la mente dai pensieri ricorsivi, ci siamo guardati e abbiamo sorriso. È stata una cosa davvero inaspettata e bella, molto leggera. In una frazione di secondo c’èstata una grande comunicazione e connessione e ci siamo scoperti connessi al di là di quello che ognuno di noi pensava. E allora ho cominciato a guardare le persone intorno a me come quando siamo in un cerchio durante le costellazioni: le guardi con dietro la loro anima, il loro destino e la loro dignità. E lì ti accorgi che veramente puoi amare tutti e l’augurio che faccio a me e agli altri è di sperimentare sempre più spesso questa dimensione. E man mano che questi stati si consolidano sperimento che la vita diventa come una lunga giornata estiva: possono arrivare le nuvole e il temporale ma tanto sai che è estate che presto passa. 

TI ho sentito parlare spesso di “momenti crack”. Cosa intendi? 

Mi rifaccio a una citazione di Leonard Coen che dice “C’è un crack in ogni cosa: è lo spazio da cui passa la luce”.  I momenti crack sono quelli durante i quali il nostro guscio, la nostra corazza si crepa e lascia che filtri la luce. Spesso sono momenti legati a situazioni difficili, come i fallimenti. Sono diventato un’amante dei fallimenti. So che questa affermazione può essere vista come provocatoria e che può spaventare, ma non posso fare a meno di riconnettermi alla definizione bellissima che il maestro Zen Taiten Guareschi in una nota autobiografica da di sé stesso. Lui si definisce uninguaribile ottimista avviato sul sentiero del fallimento totale. E’chiaro che fa riferimento ai fallimenti dell’ego, a tutte le sue pianificazioni e ai suoi sforzi, le fabbricazioni, le attività che vogliamo controllare in una realtà che di per sé non è controllabile. Quando accadono questi fallimenti scopriamo veramente qualcosa di nuovo: che sono i nostri più grandi successi. I momenti che ricordo con maggiore intensità sono proprio quelli legati a un fallimento. Ne ho vissuti alcuni e per me sono stati fondamentali  perché
sono momenti che l’ego vive come momenti di umiliazione e in cui si ha quasi paura di perdere la propria dignità 

F. Quando hai iniziato a entrare in contatto con il mondo delle costellazioni?

L. Il primo contatto èstato con ISKON - un istituto di Milano che ora credo non essere più attivo, diretto da Federico Pagni e Charlotte Gotz - che aveva un approccio molto interessante, che in parte mi sta tutt’ora ispirando , e che è quello di integrare tanti stili diversi di costellare. 

F. Quanti anni avevi?

L. Doveva essere intorno al 2000. E fu amore a prima vista. A tal punto che inizia subito a sperimentare ciò che avevo appena appreso, utilizzando i miei colleghi di lavoro come cavie. Poi, dopo qualche anno, attraverso l’amica Anna Zanardi, conobbi Attilio Piazza e mi iscrissi al suo percorso di counseling che allora prevedeva anche una serie di docenti stranieri  straordinari che mi hanno dato molto. 

F. Da tutta questa esperienza cosa hai imparato? 

L. Innanzitutto ho imparato chi sono. Ho imparato a riconoscere cosa mi sta a cuore e cosa voglio essere in questa vita. Ho imparato a apprezzare la diversità, anche negli stili costellativi.
 
F. Ma c’è un modo di costellare più corretto di altri? A volte le persone che approcciano per la prima volta le costellazioni hanno un po’paura di dover vivere situazioni drammatiche e dolorose.
 
Non credo ci sia un modo “giusto”di Costellare. E tengo conto che lo stesso Hellinger ha cambiato profondamente il proprio modo di Costellare dalle origini a oggi. Tuttavia, nutro una certa avversità per chi - nelle Costellazioni - alimenta il “dramma”, nutre la dimensione emozionale negativa lasciando il cliente per troppo tempo a contatto con le esperienze dolorose del passato. Nessuno nega che queste vi siano state. Allo stesso tempo, è per me di prioritaria importanza che il Cliente stia a contatto con il proprio passato doloroso solo per il tempo necessario a poterlo riconoscere Occorre dire con pace e possibilmente gratitudine: “si, èandata così”.  Una volta che il cliente si è riconnesso a un sentimento di gratitudine per il proprio passato, diviene il tempo di rivolgerlo di 180°verso il suo futuro, il suo miglior futuro, lo spazio delle sue migliori possibilità. Nella nostra Scuola amiamo oltre alla profondità anche la luminosità e la leggerezza e non disdegnamo di provare divertimento, anche mentre costelliamo, quando lo si può fare.

F. Fino ad ora abbiamo parlato di costellazioni di gruppo. A livello di singolo come ti regoli? Nel gruppo c’èuna forza ed energia molto potente che permette il movimento e il fluire. Nell’one to one invece…certo si puòricorrere ai playmobil o simili…

L. Nell’one to one preferisco orientarmi attraverso due cose. La prima è una competenza che applico sempre, sia nell’one to one sia nelle costellazioni di gruppo e che è il pilastro della nostra scuola, ovvero la capacità di immedesimazione o di captazione. Capacità che appare evidente a chiunque venga scelto come rappresentante in una costellazione e che si manifesta nella possibilità di percepire sensazioni, emozioni, impulsi di movimento, intuizioni della persona rappresentata.

E’da tempo che mi domando perché mai dovremmo relegare questa facoltà totalmente umana, che mi porta a avere nuove intuizioni e consapevolezza, solo al momento in cui vengo scelto come rappresentante in una costellazione. Se questa è una nostra competenza, una facoltà dell’animo umano, ebbene non posso più accettare che una persona sperimenti tutto questo nel limitato orizzonte di una costellazione e se ne torni a casa come se niente fosse. Vorrei far capire che questa capacità- definita da Matias Vargas “percezione rappresentativa”- è un dono che dobbiamo esercitare e alimentare sempre, in ogni contesto di vita, perché èuna di quelle qualità che rende l’uomo pienamente Umano.

Vuol dire comprendere il vissuto dell’altro anche nelle situazioni critiche: con la persona con cui sono in conflitto, con chi non riesco a capire fino in fondo, con chi sta ha un disagio e, ovviamente, anche con il mio cliente in una sessione di counseling. Pertanto, quando mi trovo al fianco del mio cliente in sessione individuale o di gruppo, innanzitutto mi chiedo come sto se divento lui, quando mi connetto al suo sentire, entrando in quello spazio dentro di me, in cui io e lui siamo uno.

Li ricevo delle immagini, delle intuizioni e delle comprensioni che altrimenti non potrei avere. Divento quindi, in un certo senso, suo rappresentante. Questa è la parte piùimportante che cerchiamo di sviluppare e allenare il più possibile durante il percorso, anche grazie a varie modalità anche di tipo artistico: attraverso il disegno, la creta, la cera. Plasmiamo cioè dei materiali e poi ci immedesimiamo attraverso l’ausilio degli impulsi di volontà che l’altro imprime alla materia. 

F. In altre parole manipolando la creta o la cera tu infondi parte di te stesso e trasmetti delle informazioni al materiale.
 
L. Infatti. Dopo di che mi chiedo: se questa scultura l’avessi fatta io come starei, cosa avrei voluto rappresentare?

F. Mi viene da pensare che nel momento in cui tu, estraneo, prendi in mano la mia scultura di cera, ti arrivano delle informazioni.

L. Esattamente.  Perché ci connettiamo a un livello molto più profondo. E’come se il tuo impulso di volontà dialogasse con un mio livello profondo bypassando la nostra parte più cognitiva. 

F. E la applichi anche nell’one to one?
 
L. Spesso
 
F. Quindi invece di usare i pupazzetti chiedi al cliente di farti il pupazzetto che rappresenti lei o suo marito, suo figlio …

L. E’ così. Le figure plasmate hanno molta più forza dei pupazzetti perché plasmare sé stessi o le persone care ha degli effetti particolari e profondi. Pensa cosa significa plasmare i propri genitori: è un’esperienza nuova e fuori dal tempo perché sono loro ad averci plasmato per certi versi.  E’ un po’come se - per un istante - divenissimo noi i creatori, come se divenissimo le forze plasmatrici da cui i nostri genitori provengono.

F. Oserei dire che nel momento in cui una persona plasma i personaggi che rappresentano le persone alla base del suo interesse, non c’è più bisogno di dire nulla.

L. Il fatto di plasmare è giàun riconoscimento e quindi le parole non servono più o perlomeno ne servono molte meno. Perché plasmare vuol dire entrare dentro sé, riconoscere un impulso di volontà e trasferirlo e questo ci porta a essere molto silenziosi. E’ già un bel dono.
Parlando d’immedesimazione mi torna in mente un discorso di Alessandro Bergonzoni, attore ma anche antroposofo e filosofo dall’anima molto raffinata, durante un festival dell’Unità nel 2006 in cui fece un elogio della immedesimazione. Disse infatti (vado a memoria): “Non possiamo essere solo noi stessi. Dobbiamo invece comprendere che siamo anche l’altro, che siamo tutto e qualsiasi lavoro facciamo dobbiamo immedesimarci negli altri e capire che non siamo solo noi e ciò che ci riguarda, ma che dobbiamo diventare anche l’altro, anche l’anziano, la madre, il carcerato, il malato in ospedale …siamo tutto. Non posso interessarmi solo di ciò che mi riguarda, quando mi riguarda”.

Noi nelle costellazioni abbiamo la fortuna di sperimentare anche fisicamente gli altri. Quando rappresentiamo una persona deceduta o un figlio accogliamo nella nostra coscienza delle informazioni fondamentali rispetto a ulteriori punti di vista. E siccome potremmo anche definire la consapevolezza come la capacità di accogliere punti di vista diversi, quello che noi facciamo nelle costellazioni è un esercizio di consapevolezza e spesso avviene che questo esercizio venga dato per scontato, non venga valorizzato. E quello che io cerco di trasmettere nel nostro percorso è proprio di non dare per scontato questo aspetto che è un evento fondamentale. E’importante che il rappresentante faccia tesoro delle esperienze che vive perché ha la possibilitàdi vedere il mondo da angolature completamente nuove.
 
F. In sintesi vuoi dire che, dopo aver partecipato come rappresentante a una costellazione, non si può tornare a casa come se nulla fosse successo ma che le sensazioni e le emozioni vissute andrebbero tenute a cuore.

 
L. Tenere a cuore èl’espressione esatta. Non voglio dire che ci si debba riflettere ulteriormente (il che tuttavia, non guasterebbe), ma che non si può darle per scontate. Bisogna capire che il fatto di potersi immedesimare comporta una responsabilitàe una grande opportunità: significa viaggiare dentro di te fino a trovare quello spazio magico in cui tu e l’altro siete Uno. Allora non puoi più fare del male a nessuno, senza prendertene la piena responsabilità. Questo è il potere dell’immedesimazione: il potere di riconoscere la connessione che c’è con l’altro, chiunque sia.
 
F. È la parte più difficile. Ma se pensi al dolore che infliggi dovrebbe diventare più facile.
 
L. Per me èstata un’esperienza molto importante rappresentare, durante un seminario, un soldato deceduto in battaglia. C’erano molti rappresentanti di soldati morti intorno a me, inclusi quelli appartenenti all’esercito nemico. In un momento, sentii che non avevo nessun tipo di rancore verso chi mi aveva arrecato la morte. Al contrario, con grande sorpresa, notai che c’era un bel senso di fratellanza: nella morte cessavano le fazioni ed eravamo tutti fratelli perchéormai eravamo andati oltre. In quella circostanza, mi portai a casa un ulteriore pensiero che mi sorprese non poco: la guerra per gli uomini è solo un altro modo per incontrarsi …è un’altra possibilità che gli uomini hanno per incontrarsi spiritualmente, in un’altra dimensione. Da morto potevo vedere l’altro come un fratello.
 
F. Vorrei farti una domanda su due argomenti che  mio avviso sono correlati: l’esclusione e il destino. Sappiamo che è fondamentale includere l’escluso ma perché?
 
L. Credo per la stessa ragione x cui è impossibile smettere di amare. Amore, inteso nella sua accezione più elevata e spirituale, fondamentalmente vuol dire includere indistintamente. E ci accorgiamo che grazie all’esperienza delle costellazioni è impossibile creare benessere all’interno di un sistema escludendo qualcuno. Quindi, in altre parole, affinché il sistema sia in armonia e gli elementi del sistema possano vivere questa armonia è necessario includere e essere inclusivi il più possibile, in altre parole: amare.

Non è facile perché spesso ci dobbiamo confrontare con i nostri limiti. Ci confrontiamo con la nostra capacitàdi accogliere la diversità, che a un certo punto incontra dei limiti. E se ci sono benissimo, ne teniamo conto. Allo stesso tempo, nelle costellazioni sperimentiamo spesso la possibilità di varcare questo limite e di includere sempre più anche quelle persone per le quali inizialmente nutriamo antipatia e repulsione. Se guardiamo  l’altro, “il carnefice”, condannandolo nel nostro intimo, allora non lo includeremo mai e il sistema non riusciràa sbloccarsi; se invece, nel guardare l’altro sospendo il giudizio e lo includo inchinandomi al suo difficile destino, posso scoprire la compassione. Parafrasando De Andrè, potremmo dire che scopriamo che non ci sono colpevoli, che“siamo tutti vittime di questo mondo”.
 
F. Se poi pensiamo che ognuno ha una storia alle proprie spalle e che èil frutto delle generazioni che lo hanno preceduto…
 
L. Allora possiamo guardare questa persona visualizzando alle spalle la sua dignità e rispettando il suo destino. Possiamo pertanto essere totalmente in disaccordo con quello che ha fatto e al contempo includerlo.
 
F. Qualcuno potrebbe dire o pensare che questa capacitàdi includere e accogliere sia solo buonismo.
 
L. No, non è buonismo. Credo che il buonismo come tutti gli “ismi”sia  pericoloso. E’ un concetto molto pragmatico. Nelle Costellazioni, abbiamo la fortuna di sperimentare nel corpo fisico, vitale e emozionale ciò che ci fa stare bene. Quindi nella mia esperienza l’inclusione è un’altra modalità per sperimentare benessere e amore.
Non è un concetto moralistico, ma morale.
 
F. Mi piace questo concetto di “modalità di provare benessere”. Mi sembra molto in linea con questo modo di essere e di sentire.
 
L. Propongo spesso una pratica in cui sperimentiamo quattro prospettive fondamentali, che sono: la visione egocentrica, etnocentrica, ecocentrica e cosmocentrica. Lo facciamo cambiando la nostra posizione percettiva, come siamo abituati a fare dalla pratica delle Costellazioni. Con questo semplice esercizio - che non è un’operazione intellettuale, ma vissuta integralmente nel corpo e nelle emozioni - ognuno può percepire la differenza che vi ènell’essere via via sempre più inclusivi. Dallo stadio in cui tutto ruota attorno a me (egocentrico) e ai miei bisogni, allo spazio in cui mi riconosco in un “noi”che tuttavia presuppone l’esistenza di un “loro”(etnocentrico). La posizione ecocentrica inizia a aprire una nuova prospettiva sull’insieme, sull’interdipendenza e sull’equilibrio tra gli elementi del sistema. Diveniamo inclusivi e equidistanti e sperimentiamo che più si allarga l’angolo percettivo da cui osserviamo il mondo più il senso di spazio e di benessere aumenta. Ma quando ci poniamo nella dimensione cosmocentrica, allora - durante l’esercizio - cala il silenzio, non ci sono piùparole per descrivere. C’è tutto. E in questa sensazione di coscienza unitiva, le persone sperimentano uno stato di consapevolezza nuovo, per alcuni commovente, che diventa uno stato a cui aspirare per farlo diventare stadio. Ma trasformarlo in stadio è il compito non di una vita ma di tante vite.
E per fortuna abbiamo l’eternità di fronte a noi  e quello che non riusciremo a fare in questa vita lo faremo nelle altre.



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